Il Consiglio dei ministri, lo scorso 3 novembre, ha approvato il testo del disegno di legge costituzionale di modifica degli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione.

Le valutazioni inerenti a disegni di legge di riforma costituzionale non possono certamente prescindere dalle ripercussioni sistemiche che le modifiche introdotte sono in grado di generare con particolare riguardo alla forma di governo e ai relativi e necessari meccanismi di pesi e contrappesi.

Il ddl si compone in totale di cinque articoli. Con i primi due si dispone l’abrogazione del secondo comma dell’art. 59 – nomina dei senatori a vita – e l’eliminazione della possibilità per il Presidente della Repubblica di procedere allo scioglimento di un solo ramo del Parlamento (art. 88 cost.). Al riguardo, è necessario evidenziare che il potere di scioglimento può trovare applicazione anche in relazione a circostanze differenti da quella della crisi del rapporto fiduciario nell’ambito della funzione di controllo e garanzia svolta dal Presidente della Repubblica per la tutela dei valori e dell’integrità nell’ordinamento costituzionale. Tale deduzione trova conferma nelle diverse tipologie di scioglimento presidenziale praticate nel corso degli anni. Un inevitabile richiamo va fatto allo scioglimento tecnico del 1953 (oltre a quelli del 1958 e del 1963) avvenuto nei confronti del solo Senato da parte del Presidente della Repubblica Einaudi che pare aver voluto dimostrare, in tal modo, la propria valutazione negativa in merito alla capacità della seconda Camera di funzionare correttamente a causa delle forme patologiche assunte dal contrasto tra governo e opposizione in occasione dell’approvazione della legge elettorale meglio conosciuta come “legge truffa”.

I successivi articoli 3 e 4 del disegno di legge prevedono l’elezione diretta del Presidente del Consiglio e l’attribuzione di una maggioranza pari al 55% complessivo dei seggi a vantaggio delle liste e dei candidati collegati al candidato eletto (modifica dell’art. 92 Cost.). Il governo dovrà comunque avere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento e al riguardo, il testo specifica che il Presidente del Consiglio eletto che non abbia ottenuto la fiducia per il suo governo, possa ripresentarsi una seconda volta alle Camere ed in caso di nuovo voto contrario il Presidente della Repubblica debba procedere allo scioglimento anticipato. Nel caso in cui il Presidente del Consiglio cessi dal suo incarico nel corso della legislatura il Presidente della Repubblica potrà nominarlo nuovamente oppure nominare altro parlamentare eletto in collegamento con l’uscente, che dovrà tentare di dar vita ad un nuovo governo al quale le Camere dovranno accordare la fiducia. Nel caso in cui questo secondo governo non ottenga la fiducia o cessi per qualsiasi ragione, il Presidente della Repubblica dovrà procedere con lo scioglimento anticipato (modifica dell’art. 94 Cost). Il principale elemento da focalizzare coincide quindi con le modifiche alla forma di governo e, nello specifico, con l’introduzione dell’elezione diretta a suffragio universale del primo ministro, che diventa il “Presidente eletto”.

In ottica comparata va necessariamente rilevato come l’elezione diretta del capo del Governo sia stata sperimentata nel 1996 solo in Israele e subito abrogata, già nel 2002. Per quanto concerne, invece, il modello tedesco cui spesso si fa riferimento (peraltro trattasi comunque di forma di governo parlamentare) è necessario precisare che il cancelliere non è “eletto direttamente”, ma è frutto delle scelte dei partiti mentre, verosimilmente, il problema centrale del nostro sistema è individuabile proprio nella coerenza delle maggioranze politiche che reggono l’Esecutivo. Per rafforzare la stabilità dei nostri governi e potenziarne l’azione, sarebbe invece auspicabile, tra l’altro, il rafforzamento di alcuni meccanismi già esistenti con l’introduzione, ad esempio, della sfiducia costruttiva, presente sia nel sistema spagnolo che in quello tedesco, così come una revisione non solo del Senato ma anche delle procedure legislative, prevedendo, tra l’altro, canali legislativi privilegiati rispetto alle proposte più importanti dell’esecutivo nonché soluzioni rispondenti all’esigenza (se non addirittura emergenza) di conferire un rinnovato assetto al nostro bicameralismo perfetto ormai decisamente sconfessato nei fatti.

Al riguardo, la riforma proposta dal Governo in carica non accenna alla decretazione d’urgenza ormai divenuta il modo ordinario di procedere di tutti gli esecutivi da decenni a questa parte, basti pensare al periodo della pandemia, al fine di determinare un necessario bilanciamento con il ruolo dell’organo al quale è intestata la funzione legislativa, ossia il Parlamento, interessato solo marginalmente dalle modifiche proposte (art. 59 e art. 88 Cost.).

Non si tratta a priori di negare o sconfessare la necessità di una revisione del nostro testo costituzionale poiché l’esigenza di garantire continuità e stabilità ai governi rappresenta certamente il nodo critico del nostro sistema che ha visto dal 1946 ad oggi succedersi 68 governi, con una durata media di circa un anno. Questa situazione di precarietà pone inevitabilmente l’esecutivo in una situazione di debolezza con ricadute di sistema importanti. Ma oltre a questo è imprescindibile rispettare l’equilibrio dei poteri, è impossibile, infatti, non considerare, oltre alla progressiva marginalizzazione del Parlamento, l’evoluzione che la figura del Presidente della Repubblica ha invece assunto nella nostra forma di governo e che lo ha reso, indiscutibilmente, un autentico garante degli equilibri interni e internazionali. Tra i punti di forza dell’attuale assetto costituzionale vi è proprio il Presidente della Repubblica, garante della Costituzione e “arbitro” nei momenti di crisi. Risultano, infatti, numerose le “opposizioni” alle tesi che classificano il Presidente della Repubblica esclusivamente come potere neutro dato che in caso di crisi del sistema parlamentare, e a sua difesa, quest’organo ha la possibilità di trasformarsi da Capo formale in Capo “sostantivo” dello Stato. In fasi di forte instabilità, il ruolo del Capo dello Stato si trova inevitabilmente a dover mutare. Non è possibile non tener in debito conto l’intrecciarsi di numerosi fattori oggettivi cui questo cambiamento si riconduce: gli scontri e l’insufficienza politica delle maggioranze di governo non fanno altro che accrescere il malcontento dell’opinione pubblica sulla conduzione della politica nazionale, “obbligando” il Capo dello Stato a forgiare il proprio ruolo in maniera più definita rispetto alla configurazione costituzionale. Il Presidente della Repubblica, difatti, dispone di poteri di garanzia e di controllo ma, allo stesso tempo, può esercitare una costante attività di mediazione e di impulso, mediante la quale influisce significativamente su questioni anche di stretta rilevanza politica.

Come abbiamo avuto modo di vedere più volte, la condotta del Capo dello Stato, soprattutto in momenti di forte instabilità, si inserisce in un contesto caratterizzato da profonde conflittualità tra le forze politiche che si muovono, di frequente, sul terreno della reciproca delegittimazione piuttosto che su quello del dissenso riguardo le rispettive scelte di indirizzo politico.

Carmen Ranalli – Responsabile PNRR e pubblica amministrazione Partito Democratico abruzzese