Mi fa sorridere il fatto che la stampa italiana si stia accorgendo della «Generazione Z» solo ora che Blanco ha vinto il Festival di Sanremo e che solo ora gli intellettuali di questo meraviglioso lembo di terra proteso fra la cultura Mitteleuropa e il Medioriente si riempiano la bocca della necessità di darle tutto, di affidarle il fururo e, perché no, anche il presente.
Se ne accorgono ora che un “giovane favoloso” vince. Non se ne sono accorti quando da loro è venuta l’opposizione sociale più risoluta alla peggiore destra che questo Paese abbia mai visto e che due anni e mezzo fa stava correndo il rischio di diventare egemonica; non se ne sono accorti quando sono stati i giovani a portare nelle piazze la tensione morale militante per la salvaguardia del Pianeta; non se ne sono accorti quando hanno ripudiato in massa le piattaforme massmediatiche e social stracolme di odio e individualismo dei loro padri e nonni, creandone delle nuove che hanno respinto questi contenuti putridi come muri di gomma; non se ne sono accorti quando sono stati lasciati soli di fronte alla precarietà esistenziale, professionale, emotiva del momento storico in cui gli è stato dato di vivere; non se ne sono accorti quando chiedevano una formazione di qualità e in grado di essere di nuovo ascensore sociale; non se ne sono accorti quando veniva criticata con uno stomachevole paternalismo borghese la violenza delle periferie responsabilizzando il rap e non cinquant’anni di ghettizzazione e “gentrification” sulla base delle quali sono state disegnate le nostre città adatte solo a uomini, maschi, benestanti e di mezza età.
Non se ne sono accorti banalmente quando due settimane fa un coetaneo di Blanco è morto mentre stava facendo alternanza scuola-lavoro in una fabbrica in Friuli-Venezia Giulia, mentre si stava formando secondo criteri non decisi né condivisi dalla sua generazione ma da un processo riformatore del suo universo, la scuola, calato oggettivamente dall’alto.
Ora che il campione, quello più bravo, vince (sia chiaro meritatamente e con una canzone che è un gioiello), mai quando tutti gli altri, meno bravi, dovevano essere formati, accompagnati, aiutati ad autodeterminarsi con le proprie forze e le proprie fragilità.
Il sociologo Michael Young, nel 1958, immaginava un futuro distopico nel quale una società imperniata solo ed esclusivamente sul pilastro della meritocrazia ha l’effetto di umiliare ancora più subdolamente la persona umana, con nuove caste, ben oltre le classi di quel filosofo con la barba. Quel futuro è ambientato nel 2033 e noi ci siamo vicini nel tempo per colpa del ticchettio dell’orologio e nel merito per precisa responsabilità dei “nemici di sempre contro le ribellioni”. Nemici che non sono solo contro i giovani e non sono nemmeno necessariamente solo vecchi ma sono nemici del cambiamento dello status quo, della liberazione di chi non decide: quelli che vogliono convincerci che basterà farci scendere in campo a giocare con le loro regole, mentre è ora di cambiarle dalla radice.
Claudio Mastrangelo
Segretario Giovani Democratici Abruzzo